La ristorazione uno dei settori più duramente colpiti dal blocco imposto dal contenimento del COVID-19. Non appena è stato possibile, molti business si sono lanciati nel delivery, per spirito di sopravvivenza. Ma il mondo del food non è fatto di solo cibo: ora sono necessarie nuove strategie per esportare l’experience.
Capire perché il coronavirus abbia travolto il settore del food e dei pubblici esercizi è piuttosto intuitivo. In assenza di una precisa strategy di ripartenza, coraggiosa e creativa, il rischio reale è però che la fase 2, in partenza dal 18 maggio e con riaperture crescenti, certifichi il crollo definitivo di un settore che, grazie al sussidio dello Stato, in Fase 1 aveva potuto semplicemente congelarsi, attendendo l’evolversi dei fatti.
La Fipe-Confcommercio fornisce qualche dato per misurare la situazione. In Italia ci sono 330mila ristoranti: fatturano 86 miliardi e danno lavoro a 1.2 milioni di persone. Si stima il fallimento per 50mila esercizi, e la perdita di 300mila posti di lavoro. Perdite enormi che – secondo le associazioni di categoria – gli aiuti economici da parte del governo, insufficienti, non sapranno tamponare. Di contro, gli elevati costi di mantenimento necessari alla ripartenza andranno sostenuti per lungo tempo.
Le insidie della fase 2
Nella fase 2 il settore dovrà riprendere le proprie attività facendo i conti con un radicale mutamento degli stili di vita. Mutamento in parte imposto dalle misure di distanziamento atte a contenere la diffusione del virus (che rimarranno in vigore, presumibilmente, fino a che non sarà stato diffuso un vaccino efficace: gli esperti parlano di inizio 2021, come orizzonte temporale.
Ingressi contingentati
Nonostante il taglio delle tasse sull’occupazione del suolo pubblico, che permetterà alle attività di lavorare all’aperto il più possibile, le misure di contingentamento degli ingressi ridurranno inevitabilmente l’afflusso di clientela. Questo non avrà soltanto un impatto sul fatturato, ma anche sull’occupazione. Il personale degli esercizi – ora in cassa integrazione – non potrà che subire tagli rilevanti a causa delle riaperture non a pieno regime.
Difficile, poi, prevedere la reazione del pubblico alle novità. La consumazione del prodotto è sempre solo uno degli elementi dell’esperienza che il cliente cerca in un locale: che impatto avranno il contingentamento e i vari dispositivi di protezione nella sua percezione?
Nuove abitudini
Stando alle rilevazioni, il 45% dei nuovi smart worker è soddisfatto di questo modo innovativo di impostare la prestazione lavorativa, soltanto il 13% di chi l’ha provato in questi mesi di lockdown tornerebbe alla vecchia formula.
Lavorare in ufficio, solitamente, implica anche mangiare fuori, soprattutto in una grande città come Milano. Qualora queste nuove modalità di lavorare dovessero almeno parzialmente consolidarsi, che impatto avranno sui business del food? Come potranno essere intercettate le nuove necessità?
La corsa al delivery
Qualche dato raccolto durante questi mesi di fermo, proprio dal gigante del food delivery Just Eat: secondo un sondaggio le consegne a domicilio sono considerate essenziali dal 90% degli italiani; il 60% ne ha fatto ricorso durante il lockdown.
La corsa al delivery è stata la reazione immediata di molte attività, seppure questa riconversione sia stata vissuta criticamente da molti esercizi. Lo confermano i numeri rilasciati proprio da Fipe-Confcommercio, che evidenziano come molti locali si siano trovati impreparati di fronte alla necessità di questa riconversione repentina, e come molti altri abbiano invece preferito attendere le riaperture, reputando insostenibili i costi (il 64,5% degli imprenditori) o le modalità del nuovo modo di lavorare (il 35,5%).
A soffrire soprattutto i ristoranti “tradizionali”, improntati a una cucina nostrana servita ai tavoli. Di loro, soltanto il 5,4% è stato in grado di offrire immediatamente un servizio di consegna. In ogni caso, il 10,4% dei business si è attivato immediatamente per affrontare la nuova sfida, intuendo la crescita della domanda di cibo a domicilio: +40%, secondo la rilevazione.
La nuova situazione pone dunque le attività in una competizione inedita, che si giocherà sulla capacità concorrenziale di offrire servizi innovativi. Non si tratterà semplicemente di organizzare logisticamente il lavoro secondo i nuovi bisogni, bensì di saper intercettare desideri e aspettative dei consumatori, costruendo per loro vere e nuove food experiences che acquistino significato all’interno della nuova vita a cui ci affacciamo.
Il food come experience
Il cibo non è mai solo cibo. Fare esperienza del food è sempre fare esperienza di un mondo, di un mood, di una cultura che il business deve cercare di portare nel piatto attraverso il servizio, la location, lo storytelling (che include anche la narrazione della filiera, della provenienza delle materie prime, del know how).
In altre parole, attraverso il branding: brandizzando cioè l’esperienza, rendendola unica, inconfondibile e riconoscibile. Questo è ciò che cerchiamo quando scegliamo un locale piuttosto che un altro, soprattutto in un panorama, come quello milanese, altamente competitivo e capace di offrire una qualità nella ristorazione molto alta.
La sfida, ora, diventa sviluppare strategie e approcci innovativi per esportare questa food experience anche fuori dai locali, riconfermando il food come uno degli elementi centrali attraverso cui le città plasmano la loro socialità e le modalità di vivere gli spazi urbani.
Re-immaginare il business
Non basta, dunque, chiudere in una scatola anonima il cibo e farlo arrivare a destinazione. Soprattutto se ci si affida a servizi terzi di delivery, che tendono a offrire una vetrina piatta, mettendo l’accento sull’efficienza del loro servizio di consegna.
I dati analizzati in precedenza sulle difficoltà per alcuni esercizi tradizionali – soprattutto quelli a gestione familiare – di approcciarsi al delivery ci danno una conferma: hanno saputo riconvertirsi più efficacemente quei business che già in tempi “normali” avevano puntato sul branding e sulla customer experience. Vediamo qualche esempio virtuoso di business a Milano.
MISCUSI, la catena di fast food dedicati alla pasta fresca, nata nel 2016 e diventata nota per il suo branding efficace applicato all’intera customer experience, ora ha riconvertito il proprio sito web, dando rilevanza all’ordinazione online non solo dei loro piatti, ma anche dei loro ingredienti attraverso la sezione “bottega”.
Miscusi, che ha saputo fin da subito ricreare nei propri ristoranti l’atmosfera delle case tradizionali italiane, ora è in grado di esportare l’esperienza del locale nelle case dei suoi clienti. Un rovesciamento geniale, possibile grazie al potere del branding e alla cura dei dettagli, del packaging, della comunicazione.
Un altro ottimo esempio di reazione al nuovo scenario è IL MANNARINO, macelleria di quartiere con cucina a Milano, che ora diventa anche “Macelleria on line” proponendo spedizioni in tutta Italia e abbonamenti che consentono di ricevere mensilmente diverse tipologie di box con assortimento misto: la carne “direttamente a casa tua, sottovuoto e pronta da cuocere!”
Formule di abbonamento potrebbero rivelarsi molto vantaggiose nel futuro prossimo. Pensiamo, per esempio, a tutte quelle attività che hanno come target i lavoratori. Molti di loro torneranno ai posti di lavoro, altri lavoreranno da casa o a turni, ma per tutti sarebbe davvero utile poter contare su un servizio di delivery convenzionato, un’evoluzione digital dei buoni pasto.
In collaborazione, magari, con start up innovative come EatsReady – un network che connette ristoranti e aziende per la gestione della pausa pranzo – o Dishcovery, un’app che consente ai locali di rendere i propri menù interattivi e disponibili in tutte le lingue. Un approccio digital e multichannel con innumerevoli vantaggi, come una dettagliata organizzazione del lavoro per i ristoranti e la possibilità per gli utenti, per esempio, di conservare e monitorare lo storico dei propri pasti, impostando un’alimentazione sana ed equilibrata.
Un principio di fidelizzazione strategico per gli esercizi, ma anche in grado di aiutare il pubblico a costruire una nuova routine. Una quotidianità diversa, ma non necessariamente peggiore: potrebbe inaugurare, anzi, un nuovo modo di vivere la città, gli spazi comuni delle aziende e gli spazi pubblici urbani, come i parchi e le piazze. Una delle caratteristiche centrali dello smart working – che per molti, da necessità, potrebbe diventare una scelta – è quella di svincolare la prestazione lavorativa dal luogo di lavoro: una formula “lavora quando vuoi, dove vuoi” che, di fatto, consente di riscoprire il piacere di vivere gli spazi urbani in qualsiasi momento della giornata.
Una ridistribuzione della socialità più diffusa, un’alternativa avveniristica alla divisione delle aree urbane in comparti che rovescia la comune ripartizione in quartieri per il lavoro, quartieri dormitorio e zone esclusivamente turistiche. La ristorazione della fase 2 dovrà saper raggiungere lavoratori e lavoratrici, anticipare i loro desideri per essere immediatamente responsiva nei confronti dei loro nuovi bisogni.
Un orizzonte di innovazioni davvero molto ampio, che include al suo interno le frontiere del food tech per una piena consapevolezza della filiera grazie all’uso della IoT (Internet of Things).
Ma anche il trend degli chef a domicilio e la galassia in espansione dei punti di ritiro, che nelle grandi città iniziano a essere disponibili anche per la spesa alimentare (a Milano, per esempio, Esselunga ha installato propri locker, collegati alla loro app, in alcuni ospedali: per consentire al personale sanitario di lottare in prima linea contro il virus, senza il pensiero della spesa).
Si tratta, per i business del settore, di sapere interpretare la realtà che cambia, di trovare soluzioni agili e innovative per continuare a fare parte della vita delle comunità. Esportare la brand experience, insomma, cogliendo l’occasione per diventare ancor più profondamente parte del paesaggio urbano, promuovendo nuove socialità positive, nuove modalità di incontro e utilizzo degli spazi. Essere attori attivi della creazione dell’immaginario post virale.
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